domenica 31 gennaio 2016

Scrittori di classe: INTERCULTURA

Welcome” dice l’uomo marrone aprendo la porta. Sono in un ingresso con il pavimento a scacchi bianchi e neri. Davanti a loro sale una scala. Porte di qua, porte di là. Una signora coi capelli di un grazioso color biancoviola le viene incontro. “How do you do, my dear?”
Emilia sgrana gli occhi. Pensava che certe frasi ormai ci fossero solo nei libri di scuola. Loro non li usano nemmeno, a scuola, i libri. Fanno conversazione e basta. Miss Paine è australiana, però. E giovane. E questi signori sono anziani e inglesissimi. Adesso le offriranno di sicuro…
“Tea, my dear?” Appunto. Emilia sorride e annuisce. In inglese è brava, ma un conto è rispondere alle domande della Miss, un conto è rispondere con lo stesso tono sicuro a quelle parole semplici di cortesia che però sembrano tagliate nel cristallo.
A parte questo, sono gentilissimi. Lui è tutto di tweed, anche la faccia. Lei ha un golfino azzurro, le perle, e scarpe ragionevoli da persona a cui piace camminare. Un gatto color crema scende le scale strusciandosi contro la balaustra. “Hi, Moll” dice la signora. Una coppia anziana e un gatto. Emilia non poteva desiderare di meglio. Vacanza-studio in Inghilterra? D’accordo. Ma in college no. E niente famiglie numerose con bambini a cui fare da babysitter, niente ragazzine ostili o ficcanaso. Lezioni private di grammatica e conversazione, e ospiti tranquilli. Quindi va tutto bene. 
La signora Russell sparisce in cucina.
“This way” dice il signor Russell. E la precede in salotto. Camino, poltrone verdi, divano blu, bei quadri di paesaggi e di facce antiche. 
E poi Emilia trasalisce. Da una delle poltrone si alza un ragazzo coi capelli di un biondo quasi bianco, gli occhi trasparenti. Alto, sottile, elegantissimo nell’abito scuro con la camicia candida e la cravatta. Le sorride, si fa avanti, le tende la mano. “I’m James” dice. “How do you do?”
Ancora. Emilia esita, poi la buona educazione ha la meglio. Stringe quella mano, e un brivido la avvolge.


Emilia esita poi la buona educazione ha la meglio. Stringe quella mano e un brivido la avvolge. Era da tanto che non provava un’emozione simile. Timida risponde: ”Hi James, I’m Emilia. I’m italian”. Poi il signor Russell insiste ancora con il thè. Ma Emilia risponde di no e chiede di essere accompagnata in quella che sarà poi la sua camera: “Can I see my bedroom, please?”. Arrivata chiude la porta e si sdraia sul letto, che non era particolarmente comodo. Ma alla ragazza non importava. Aveva ben altro a cui pensare. Per esempio il litigio con Tommaso. Infatti due settimane prima che lei partisse per l’Inghilterra il suo ragazzo l’aveva lasciata per Sara, l’odiosa biondina che lei detestava. Emilia da quel momento si era sentita distrutta e aveva cominciato a parlare  pochissimo. Per questo aveva deciso di non andare  in college dove ci starebbero state molte sue compagne. Non voleva commenti. Ed ora è sdraiata sul letto a pensare a quanto era stata felice. E così, tra i suoi pensieri, si addormenta. Alle 6:30 suona la sveglia. Oggi avrebbe avuto la sua prima lezione di inglese con la signora Russell. Quindi si prepara e scende per la colazione. I signori sono in salotto. In cucina c’è solo James, che saluta Emilia con un caloroso: “Good morning Emilia!”. Lei sorride e ricambia e dopo una colazione fatta come non mai, va in salotto. Oggi la lezione avrebbe trattato ”myself”. Emilia si doveva presentare e avrebbe dovuto imparare a farlo proprio come un inglese. Per questo è emozionata: lei adora parlare in inglese. Ma subito dopo la lezione  si chiude in camera e scende solo per pranzo e cena. Non riesce a smettere di pensare  a Tommaso e a Sara. Li odia entrambi. E anche durante le lezioni e quando è con i Russell è sempre sovrappensiero. Infatti dopo qualche settimana James, dopo cena, entra in camera di Emilia e le chiede: “What do you have?”. La ragazza è sorpresa per la domanda e non capisce. “What?”. James risponde: “Didn’t you understand? I said, what do you have?”. “Oh, no, i understood, but why ?”. E il ragazzo fa un discorso di cui Emilia capisce a malapena qualche parola. Infatti lo ferma e dice: “Now I didn’t unsterstand. I can’t speak english very well, so I’m here”. Sembra molto difficile comunicare.  Nonostante le sue conoscenze a Emilia sembra di essere una bimba di sei anni quando James parla. Lui riprova a spiegare, ma niente da fare: Emilia non capisce. Alla fine rinunciano tutti e due e vanno a dormire.                                                                                                                                                                                           Emilia continua le sue lezioni grazie alle quali migliora moltissimo. Ma nonostante tutto è ancora triste, non esce mai, non parla con nessuno e si isola sempre. Solo qualche volta prende Moll  e parla con lui, in Italiano, di tutto quello che sente. E poi disegna. Passa la maggior parte del tempo a disegnare e James continua ad osservarla, colpito. Vorrebbe comunicare  con lei. Ma come? Allora una sera d’agosto entra in camera sua e le dice: “You can draw very well! Draw me what you feel!” Emilia stavolta capisce, ma si chiede perché James è così interessato a lei.  Per la prima volta dopo circa tre mesi qualcuno le chiede come si sente. E per la prima volta dopo tanto decide di sfogarsi. Comincia a disegnare due persone felici, poi una di loro prende un coltello e lo mette nel cuore dell’altra e poi va da un’altra persona. La persona pugnalata al cuore viene indicata con una freccia: me. James annuisce, prende la matita dalla mano di Emilia  e comincia a disegnare: altre due  persone felici. Un’altra volta un coltello che stavolta  viene impiantato nella pancia di qualcuno. Queste due persone sono indicate da altre due frecce: mum, dad. Poi una prigione e una scritta “uncles”. Emilia capisce: James è il nipote dei Russell ed è lì per la peggiore delle ragioni; sua madre  è stata uccisa dal padre, ora in prigione.  Lui evidentemente si sente solo quanto lei. E disegna bene quanto lei. Da quella sera James va in camera di Emilia e comunicano con i disegni. All’inizio di settembre grazie a quello sono riusciti a sapere tutto l’uno dell’altra. Emilia diventa bravissima in inglese. Visita molte città come Londra, conosce un po’ di ragazzi e si apre molto grazie a James ma ormai manca solo una settimana alla sua partenza. Negli ultimi disegni appaiono sempre faccine tristi. Anche James è dispiaciuto. Si è affezionato molto a Emilia. E la settimana passa come fosse un’ora.
È l’ultima sera in cui i ragazzi possono disegnare per capirsi. Emilia avrebbe voluto disegnare a James  quanto è stata felice con lui e lo stesso il ragazzo. Ma come possono disegnarsi una gioia simile? Emilia dice: “I don’t know what I can draw…I want that you know I was very happy with you…I forgot Tommaso…Thanks James…”. Lui le si avvicina e la ringrazia. Ma dopo “thanks” James dice una frase che Emilia  non avrebbe dimenticato: “I love you…”. E esce dalla stanza. Il giorno dopo Emilia viene accompagnata all’aeroporto dai Russell e James. Prima di salire sull’aereo Emilia riesce a dire una frase che non diceva da tempo: “I love you, too  James”. E con un bacio si dicono addio.
(Miriam Eusepi IIIB)

Scrittori di classe: incipit VIAGGIO


Ero immersa nei miei pensieri, in discussione tra il mio passato e il mio presente, pensando a come una ragazza della mia età potesse avere un fato così crudele: andare in sposa ad un uomo che nemmeno conosce. Le mie riflessioni furono interrotte da un boato terribile. Mi affacciai all'oblò: una nave pirata ci stava attaccando. Vidi la ciurma del mio veliero concedersi alla morte. Non ebbi più scampo: i pirati mi rapirono. La paura prese il sopravvento. Fui catturata. Mentre mi incatenavano vidi altri pirati che si divertivano, bevevano e urlavano le loro canzoni. Vicino a loro, c' erano anche i pochi rimasti della mia ciurma che venivano derisi, insultati e gettati al mare. Mi chiusero in una cella angusta con topi e scarafaggi. Cercavo di non piangere in quel momento, temendo che mi potessero fare del male. Ad un certo punto mi si avvicinò un pirata. La sua caratteristica più evidente era il suo occhio di vetro. Molto probabilmente era il capo. Credevo avesse cattive intenzioni, invece mi interrogò per sapere da dove venivo. Io gli risposi senza pensarci due volte e gli spiegai anche il motivo del mio viaggio. Per tutta risposta si fece una grossa risata, umiliandomi ancora di più. Dopodichè uscì dalla stanza sbattendo la porta. Quell'individuo odioso aveva il cuore duro come la pietra e non avrebbe avuto nessuna pietà di me. Uscendo, tuttavia, dimenticò di chiudere a chiave la porta. Ne approfittai per seguirlo di nascosto verso il suo alloggio. Mi appostai in un angolo e da lì potei sentire ciò che accadeva all'interno. Si parlava di me con l'intenzione, una volta sbarcati, di vendermi al mercato degli schiavi. Ero terrorizzata ma d'altronde mi trovavo in alto mare e non potevo fuggire. Sentii dei passi che si avvicinavano verso la porta e, per non farmi vedere, corsi di nuovo in cella rimanendovi per tutta la notte. L'indomani, dopo una breve navigazione, fui portata nel loro covo, un paese apparentente normale che si trovava su un'isola poco distante dalla Corsica. Si respirava un'atmosfera squallida e violenta: gli abitanti erano dediti a risse e bagordi, i bambini andavano in giro armati. Quando sbarcai, tutti mi guardarono come se fossi un animale raro. Alcuni si chiedevano chi fossi, mentre altri mi insultavano. In questo luogo vissi il periodo peggiore della mia vita. Fui venduta come schiava e per due anni ho lavorato come un mulo, subendo ogni sorta di umiliazioni. Finchè un giorno incontrai Ascanio, uno schiavo che lavorava per il mio stesso padrone. Anch'egli, come me, nutriva l'intenzione di scappare. Infatti di nascosto e dopo tango tempo riuscì a costuire una zattera. Così una notte, eludendo la sorveglianza e approfittando del vento favorevole, spingemmo la zattera in mare. Seguendo le stelle facemmo rotta verso la Corsica ma ad un certo punto irruppe una tempesta. Il cielo si fece ancora più scuro, ci avventurammo nella tenebrosa nebbia che ricopriva il mare in tempesta, ci scagliammo contro gli scogli di un'isola. Tramortiti dalla forte botta, io e Ascanio ci separammo. Corsi più veloce che potevo verso una grotta che vedevo a malapena. Il giorno dopo mi resi conto che eravamo sbarcati in un'isola misteriosa, dimenticata da Dio. Andai a cercare Ascanio ma purtroppo mi persi. Stremata dal dolore e dalla sete, mi accasciai ai piedi di un albero e con gli occhi quasi socchiusi vidi una figura avvicinarsi. All'inizio mi sembrava un animale, poi, man mano che si avvicinava, riuscii a distinguere la sagoma di un uomo che camminava a fatica sorreggendosi con un bastone. Grande fu la gioia quando lo riconobbi. Finalmente avevo ritrovato Ascanio ed è in quel momento che capii di amarlo. Restammo sull'isola per tre anni fino a quando non trovammo l'essenziale per ricostruire una zattera. Facemmo rotta verso la Corsica, a Bastia.  Stremati fummo accolti e accuditi dalla popolazione locale. Trascorremmo qualche giorno lì ma poi, con immenso dispiacere, dovetti separarmi da Ascanio. Dovevo raggiungere Macinaggio dove, con la morte nel cuore, avrei sposato Adalberto eseguendo la volontà di mio zio. Il nostro incontro avvenne nella sua dimora, una splendida villa a strapiombo sul mare. Quando mi vide, Adalberto non credette ai suoi occhi. Mi abbracciò energicamente e restammo tanto tempo a parlare. Gli raccontai di mio zio e delle mie avventure finchè non mi accorsi delle lacrime che scendevano dai suoi occhi. Così, con mia grande sorpresa, mi rivelò che non mi avrebbe più sposata perchè non gli sembrava giusto rovinare la mia vita. Avrebbe comunque mantenuto fede al patto con mio zio e mi lasciò libera di rimanere o andarmene. Commossa salutai Adalberto, decisa a ritornare a Bastia con la speranza di ritrovarvi Ascanio. Arrivai in una piazza gremita di gente e lo riconobbi in mezzo a mille persone. Ci abbracciammo a lungo piangendo di gioia. Da allora non ci lasciammo mai più. Il destino era stato benevolo con me, ma chissà quante bambine, in altre parti del mondo, erano costrette a sacrificare la loro esistenza....
(Marina Cenci,…IIIA)


A Macinaggio ci arrivai cinque anni dopo, in effetti di domenica…
I mie nipoti mi ascoltavano con attenzione e interesse. Avevo deciso di raccontare la storia del mio avventuroso arrivo a Macinaggio,  perché essendo ormai anziana desideravo che qualcuno conservasse la memoria di me.
<< Salpammo dal porto di Genova, quella mattina stessa, la nave era grossa e larga, di un colore grigio-nero. Da fuori si vedevano poche finestre che corrispondevano alle stanze, alcune persone erano già salite, per vedere il porto dalla nave. Fuori al lato destro aveva uno stemma per indicare il nome, era giallo e sopra questo disegno c’era una scritta di un color blu acceso.
Il mare era calmo, il cielo che da scuro s’andava facendo sempre più chiaro, non presentava una nuvola. Prima di raggiungere Macinaggio, facemmo una sosta nel porto di La Spezia, dove mio zio aveva degli interessi commerciali. Quando ripartimmo il cielo era cambiato: era diventato improvvisamente scuro, più scuro della pece, con nuvole nere che sembravano volessero scatenare una tempesta sul mare. Il chiaro del cielo era scomparso, improvvisamente da una nuvola nacque un lampo fortissimo che  illuminò tutto.
La tempesta ci sorprese. La nave venne squassata dalle onde, alcuni dell’equipaggio vennero gettati in mare, mi prese la disperazione. Ero solo una ragazza di quattordici anni, non sapevo nuotare. Avevo trascorso la mia vita ad aiutare nella bottega della mia famiglia. Ero una ragazza che si era sempre data da fare, capace e spigliata, ma in questa circostanza non sapevo che fare. La mia difficoltà era il nuotare. Quando mi trovai immezzo all’acqua mi prese il panico, ruotavo le braccia in un modo assurdo, ma non mi muovevo. Il mio pensiero andava tutto sulla mia vita. Come mi potevo salvare?  Intanto le onde mi salivano sopra, sentivo il mio cuore come se stesse uscendo dal corpo. Allora facendomi coraggio cominciai a muovere le gambe e vidi che un riuscivo ad allontanarmi. Afferrai una tavola della nave e lasciai che andasse alla deriva. Intorno a me solo buio, a causa dei tuoni non riuscivo a sentire nessuno, solo il fragore dell’acqua. Pregai intensamente la Vergine Maria. Quante volte a Genova nella cattedrale mi ero inginocchiata di fronte alla statua della Madonna per chiederle di aiutarmi a prendere i voti e trascorrere tutta la mia vita nel convento di clausura delle Clarisse? Lei mi avrebbe aiutato.
La tempesta si calmò e alla notte subentrò l’alba. Ero sfinita, avevo deciso di abbandonarmi alle onde quando all’orizzonte comparve, prima incerta, poi sempre più definita una nave. Cercai di vedere le insegne, cercai di capire se era una nave Saracena, oppure Cristiana. Ero nelle mani di Dio.
Più da vicino vidi una bandiera che svolazzava e notai che sopra uno sfondo bianco c’era una corona gialla con tutte le stelle intorno. Mi venne in mente la storia che lo zio mi raccontava sulle principesse di Costantinopoli e sulla loro bandiera. Così dalla felicità cominciai ad urlare ad alta voce dicendo:
<<Aiuto! Aiuto! Vi prego salvatemi!!>>
La nave portava le principesse in fuga da Costantinopoli. La città era stata assalita dai Turchi ottomani. Dopo mesi era capitolata, non rimaneva ormai nulla dell’antico impero romano e del mondo cristiano. La nave delle principesse andava molto veloce, ma sentendo delle urla si fermò di colpo. Quando mi videro nel mare, il timoniere si fermò a recuperarmi. Dopo avermi fatta salire sulla nave mi diedero una coperta e una bevanda calda. Dopo di che il timoniere cominciò a farmi delle domande dicendomi:
<< Chi sei? Come mai sei naufraga? >>.
Io con un po’ di vergogna e affascinata di vedere di persona delle principesse risposi balbettando:
<<Ieri sera, c’è stata una tempesta e abbiamo fatto naufragio. la mia barca era diretta verso la Corsica. E’ stata squassata dalle onde! Io sono stata gettata giù dalla nave! >>.
Allora il timoniere rispose:
<<Ora non ti preoccupare, resterai con noi! >>
Dopo alcuni giorni di viaggio, arrivammo a Barcellona dove c’era un grande castello. qui le principesse trovarono ospitalità. Passarono alcuni mesi. Io ormai mi ero scordata di Alberto. Mi condussero in un convento affinchè potessi essere più al sicuro. Io ero contentissima, adoravo stare con Dio. Pensavo che il destino mi avesse condotto lì, invece le cose andarono diversamente.
Adalberto infatti mi cercava. Aveva inviato in tutti i principali porti del mediterraneo, persone di fiducia a cercarmi e aveva saputo che a Barcellona erano giunti i superstiti di un naufragio. Mi trovò nel convento.
La sua ostinazione nel cercarmi, mi colpì. Lo seguii allora verso Macinaggio, non più come la prima volta, ma con una nuova fiducia nel cuore…

(classe II B )

Scrittori di classe: incipit SPORT


“Allacciate le cinture di sicurezza !” spiegò l’ hostess.
L’ aereo stava per partire, e Valerio pensava come Uccio se la sarebbe cavata. L’ aero percorse qualche metro prima di partire, e come un volatile spiccò il volo. Dopo circa due ore atterrò allo aeroporto di Parigi e Valerio con il cuore in gola cercò un taxi che lo portasse al tribunale per sostenere il fratello.  
“Come sono felice di rivederti!” esclamò Uccio vedendo il fratello.
I due si abbracciarono ed Uccio spiegò come erano andate veramente le cose.
Entrarono nella sala adibita a tribunale. Iniziò l’udienza ed entrò il giudice. Aveva due occhi neri che fissano chiunque attentamente, a ogni misero movimento, astuti, penetranti e seri. Un cuore di ghiaccio che non si scioglieva neanche davanti a un pianto, rigido sulle punizioni date, al punto tale che nessuno riusciva a fargli cambiare idea.
Ad Uccio, vedendolo entrare, iniziarono a tremare le gambe: avrebbe tanto voluto scappare. La paura lo tormentava, avvolgendogli lo stomaco.
La sua fortuna lo tirò fuori da quella situazione indescrivibile: si accertò che non c'erano prove sufficienti per avviare il processo che quindi fu rimandato al mese successivo. Uccio provò un sospiro di sollievo,sapendo che non avrebbe più rivisto quel giudice,almeno per un po' di tempo.
Quella sera, Valerio chiamò, affinché lo raggiungessero nella camera d'albergo,i suoi amici più stretti: Tobia e Bianca, che come lui facevano parte della squadra di ciclismo. Chiamò anche i suoi genitori. Voleva vederci chiaro e, considerando Uccio innocente, volle studiare meglio quanti fino ad allora gli erano stati vicino. Sia la mamma che il padre si comportavano in maniera strana: si lanciavano occhiate strane, non aprivano bocca come se avessero visto un fantasma.
Valerio incominciò ad interrogare i compagni di squadra di Uccio e i propri genitori.
-Tutti voi conoscete Uccio e sapete che non farebbe mai una cosa come quella per cui è accusato. E tutti voi eravate con lui fino al momento prima della partenza. Se davvero si fosse dopato, dovreste aver visto qualcosa, giusto? Voi con chi eravate, prima della partenza dell'ultima tappa?.
-Noi non …. Sappiamo … Niente, e poi non potremmo mai...”
“No, non possono essere stati i miei genitori…” pensò tra sé e sé, mentre, impaurito, tremava al solo pensiero che in qualche modo potessero essere coinvolti.
-Non potremmo mai fare una cosa del genere, insomma… è nostro figlio...” Tra loro calò un silenzio, rotto dai compagni di Uccio:
-Beh, noi l' abbiamo visto litigare con l' allenatore, ma poi hanno sistemato tutto tra loro. Non sappiamo altro...”
“Sapevo che voi dovevate conoscere qualche dettaglio di questa brutta storia”, pensò Valerio “ Non vi volete cacciare in grossi guai e negate tutto, non è vero? beh, andrò a fondo, statene certi”.


Passarono giorni e giorni e mancava davvero poco al giorno dell’udienza: Uccio si sarebbe ritrovato un’ altra volta davanti al quell' uomo terrorizzante, il giudice. Mancava ancora la prova che dimostrasse che Uccio fosse veramente innocente.
Intanto la vita proseguiva secondo una strana normalità. Un giorno, Valerio vide la madre che stava sistemando la spazzatura e, al suo arrivo, diventò improvvisamente nervosa.
“Mamma, la porto io la spazzatura fuori, non ti preoccupare.”
“Ma no, tranquillo, vado io.”
“Su mamma!” esclamò Valerio
“No!! Ti ho detto che vado io!” ribatté la madre
Sbatté la porta così forte che dal sacco nero cadde una bottiglietta molto piccola,al cui interno non c’ era più niente. L’ etichetta era strappata e non si capiva cosa ci fosse scritto.
Valerio la raccolse e senza pensarci su, la buttò, pensando che fosse uno dei medicinali della mamma. Era veramente stanco e spossato da tutta quella storia ed ormai faceva gesti in modo meccanico, senza concentrasi affatto sulle cose. Solo il nonno lo tirava su. Con lui si sfogava, ma, pensando che alla sua età la storia di Uccio potessero risultargli fatale, non gli raccontò mai nulla di quella brutta storia. Valerio sentiva, sulle sue spalle, il peso di questo incarico che non lo faceva respirare. Poi deciso, incominciò:
“ Nonno, forse non avrei dovuto tenerlo dentro, ma avevo paura. Riguarda Uccio…Nonno, dicono che si sia dopato e… io sto cercando di capire chi sia stato, ma… ecco la mia paura…e se fosse stato davvero Uccio, come dicono? Io non voglio crederci, però…”
Il nonno lo guardò, poi fece un sorriso nascosto.
“ Valerio, dimmi con sincerità, da quanto tempo non parli con Uccio? Ma prima che tu mi risponda, ti faccio un' altra domanda. Tu hai fiducia in tuo fratello?”
Valerio iniziò a guardare gli occhi del nonno. Vedeva una storia dietro quegli' occhi.  
“ Beh, è da quel giorno che non ci sentiamo...”
“ Cosa??? Ma allora che aspetti a correre da lui e parlare, solo lui può rispondere a tutte le tue domande! Sempre se hai fiducia in lui!”
“ Nonno, vorrei tanto continuare a parlare con te, ma devo veramente fare una cosa, senza offesa, più importante!”
Valerio corse e corse e intanto pensava a cosa avrebbe potuto dirgli dopo tutto quel tempo. Si ritrovò davanti alla porta fatale. Era socchiusa e da lì non usciva nessun rumore, e a quanto sembrava nessuno ne era entrato. Fece un profondo respiro e aprì la porta. Silenzio. Non poteva più uscirne. Uccio si girò, fissò per un po' Valerio e si rigirò sul suo libro. Valerio fece un passo, poi un altro ed infine un altro ancora. Poi lacrimando corse ad abbracciare il fratello. Gli mancavano quegli abbracci. Lo strinse sempre più forte e anche Uccio non si fece indietro a contraccambiare.
“ Quanto tempo, Uccio, io ti posso spiegare, sono stato lontano da te, perché ero stato un codardo e cercavo solo di non sfigurare la nostra famiglia. Scusami...”
“ Valerio, Valerio, tranquillo, non è colpa tua, è normale che tu abbia reagito così, ma se proprio vuoi sapere e davvero credi in me, sappi che non mi sarei mai dopato. Prima di iniziare la mia carriera, anni fa, mi dissi che se l' avrei fatto, sarei stato famoso per la mia bravura e non per delle pasticche o cosa sono. Capisci? E sappi che sono stato aiutato da un grande, sai bene quanto nonno mi ha aiutato. E credo che sai bene quanto mamma e papà ne siano contrari… Non voglio accusarli, ma ultimamente mi sembrano strani e mi ripetono di continuo che il ciclismo porta a doparsi. E mi sembra che papà sia stato molte volte fuori casa e non per lavoro. Ma ora voglio passare un po' di tempo con te. Che ne dici di andare a farci una passeggiata?”
Ancora in lacrime Valerio annui. I due passarono un pomeriggio fantastico, che non passavano da mesi ormai.
Tornarono a casa e nuovamente la mamma era a sistemare la spazzatura. Questa volta insistettero in due per portarla giù e nuovamente la busta si ruppe e uscì la solita bottiglietta. Valerio la prese e fece per rimetterla dentro, quando Uccio la fermò.
“Mamma, ma questo è… è il medicinale per cui mi hanno accusato! Accidenti…Lo sentivo che c’entravate tu e papà! Ma, ma perché? Io credevo che a voi andasse bene… Avete rovinato il mio sogno e non vi permetterò di rovinare anche quello di Valerio! Io non so che fare, la polizia… Io  non posso…”
“ Uccio! Ma come… tu… Sì, è vero, siamo stati noi, ma a quanto pare non puoi accusare i tuoi genitori, rovineresti la tua e la carriera di Valerio…” non finì che scoppiò a piangere.
Valerio non poteva vedere la madre lacrimare, che si disperava.
“ Ma cosa succede?!” Era il nonno.
Valerio corse ad abbracciarlo. Uccio rimase serio, a fissare la madre in lacrime. In quel momento, tornò anche il padre. “ Ma che...”
Uccio si girò verso il padre e con gli occhi fulminei, e allo stesso tempo delusi, lo fissò.
“ Senti Uccio. Io ti avevo avvertito che il ciclismo ti portava al doping e non puoi prendertela con noi.”
Non l' avesse mai detto, il nonno staccò da sé le braccia di Valerio e camminò verso il gruppo.
“ Io ti sembro, per caso, un dopato? Eppure hai sposato mia figlia. Hai sposato la figlia di un dopato? Non credo proprio. Tutt'altro. Io dovrei denunciare mia figlia e suo marito e Uccio dovrebbe denunciare i propri genitori. Ma no. Non lo faremo. Voi giustificherete il ragazzo che non ha fatto uso di droghe e se proprio avete paura mi presenterò io. Forse si ricorderanno del primo posto del Giro di Italia.”
Tutto andò a gonfie vele e Uccio arrivò primo. Ma soprattutto a tifarlo c' erano tutti. Proprio tutti, genitori compresi.
Valerio con l' aiuto del nonno, iniziò la sua carriera che lo avrebbe portato, qualche anno dopo a salire sul podio del Tour de France, proprio come il nonno. Quel nonno che, quel giorno, avrebbe sorriso orgoglioso dal cielo.
(Emanuele Galizia,…IB)
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Non potevo credere che mio fratello fosse stato arrestato per doping! Per me c’era qualcosa sotto. Seduto sul divano insieme a mia madre e a mio padre ero ammutolito. In verità tutti erano sconvolti tranne mio padre. Avevo l’impressione che quasi gioisse. Poi lo vidi entrare subito in bagno. Diceva di dover fare una chiamata urgente. Il nonno lo seguì sospettoso.
Quando lo vidi tornare mi prese in disparte e mi disse che c’era qualcosa di strano. Aveva sentito papà che parlava con l’allenatore di esami delle urine. Tobia e Bianca mi suggerirono di controllare papà e si offrirono di aiutarmi. Tobia è un genio del computer e propose di controllare la posta elettronica di mio padre. Ci chiudemmo nello studio, mentre il telefono cominciava a squillare all’impazzata. Tobia si mise al lavoro. Con Bianca invece cercai di trovare una scusa per poter controllare i messaggi sul cellulare di mio padre. Uscimmo dallo studio, lasciando Tobia a controllare la posta. Potemmo vedere che, mentre mia madre e mio nonno si davano da fare per rispondere ai giornalisti che telefonavano, mio padre alla porta ascoltava i vicini che erano venuti per darci un po’ di sostegno. Era il momento giusto per prendere lo smartphone di papà. Cercammo di controllare i messaggi mandati e inviati dall’allenatore. Mio padre non aveva mai amato il ciclismo. Mio nonno infatti grande amante di questo sport aveva  corso il giro d’Italia e spesso in giro per le competizioni sportive aveva trascurato la sua famiglia a detta di mio padre. Poi c’era stato quel maledetto incidente che aveva cambiato per sempre la sua vita e quella della sua famiglia. Correndo il nonno era caduto e aveva fatto un incidente lesionandosi la spina dorsale. non aveva bisogno della sedia a rotelle, ma si muoveva con grande difficoltà. Dopo l’incidente erano cominciati i problemi: prima economici, poi nei rapporti con i compagni che lo prendevano in giro perché il padre era un menomato. Aveva dovuto lasciare presto la scuola per andare a lavorare. Tutto per colpa del ciclismo e poi come se non bastasse anche i suoi due figli avevano cominciato a praticare quello sport.
Sul cellulare trovammo poco e niente. Solo oscuri messaggi su un certo Dellatorre, gregario di mio fratello. Mentre stavamo rimettendo tutto a posto, Tobia ci chiamo dallo studio. Nella confusione generale nessuno aveva notato nulla. Adesso era tutto chiaro: era stato papà ad incastrare Uccio. Con l’aiuto dell’allenatore aveva fatto in modo di scambiare le urine di Dellatorre, dopato a sua insaputa, con quelle di Uccio. La sua paura era quella che anche Uccio potesse essere coinvolto in un incidente come quello del nonno. Le mail erano chiare, tutto scritto nero su bianco.
Pensai che era il caso di partire per Parigi. Avevo dei soldi da parte. Sarebbero bastati per l’aereo. Cercai di partire ma prima ne parlai con mio nonno. Dopo un primo momento di smarrimento il nonno decise di chiamare la polizia dicendo di avere informazioni su mio fratello. Quando lo sentii autodenunciarsi del fatto non credevo ai miei orecchi. La verità doveva venire  fuori, solo questo riuscivo a pensare.
Uccio tornò a casa. I giornali parlavano solo della nostra famiglia. Rivelai a mio fratello che era tutta colpa di papà. Si arrabbiò molto, ma non perché papà lo aveva incastrato tramite l’allenatore, ma perché il nonno che non c’entrava niente in questa storia era andato in carcere. Andò da papà che confesso tutto. Il litigo durò circa un’ora, fino a quando il telefono squillò. Era l’allenatore. Rispose papà. “ ho saputo cosa è successo a suo padre. Ho deciso di autodenunciarmi e di rivelare il mio ruolo. Mi prenderò tutte le responsabilità. Sono troppo anziano per andare in prigione” disse la voce all’altro capo del telefono.
Dopo l’annuncio dell’allenatore iniziò il linciaggio mediatico. Mio padre non volle rimare fuori e ammise di essere stato lui il mandante. Dovette affrontare un processo e scontare la sua pena. Io ad essere sincero rimasi molto turbato da tutta la vicenda e mio fratello per molti mesi smise di correre. Fu mio nonno a convincerlo a partecipare al nuovo tour de france l’anno seguente. Fu lui che si occupò di fargli da allenatore.
Mosso dal desiderio di rifarsi della precedente gara Uccio si impegnò tantissimo. Io, Bianca e Tobia convincemmo il nonno a portarci a Parigi. In fondo era merito nostro aver smascherato i veri colpevoli!
Tenevamo d’occhio soprattutto le pattuglie della polizia. Mio fratello con la sua squadra per tutto il tour rimase sempre primo. All’ultima tappa, mentre facevo il tifo, proprio vicino al traguardo, mi accorsi che c’era anche papà. Uccio tagliò il traguardo tra le gride di gioia di tutti noi. Quando mi girai per guardare papà, lui non c’era più.
Mi domandai perché fosse venuto. Forse aveva cambiato idea sul ciclismo? Forse voleva farsi perdonare? Forse voleva solo vedere Uccio vincere.
Dal giorno della discussione con Uccio si era chiuso in un silenzio senza senso. Forse la vittoria di Uccio avrebbe riportato tutto come prima. Certamente dalla vicenda tutti avevamo imparato che volersi bene non basta. Bisogna saper mettere da parte il proprio egoismo e rischiare che l’altro corra con le proprie gambe.
(Classe IIB)
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Mio fratello era evidentemente turbato, la paura che la sua brillante carriera potesse finire gli riempiva il cuore. Lui non si sapeva spiegare come il test anti-doping avesse avuto un risultato positivo. Altrettanto preoccupati erano i nostri genitori velocemente presero un’importante decisione: partire per Parigi. A tale decisione, presi parte anche io. Prenotando una stanza in un piccolo albergo a tre stelle nella periferia della capitale francese ed immediatamente preparammo i bagagli. Lo stesso pomeriggio partimmo da Firenze e circa due ore dopo ci ritrovammo nello scalo desiderato. Arrivati nel nostro albergo, mia madre fece una cosa per lei, molto inconsueta, lasciò le sue valigie a terra e prese il telefono: voleva chiamare Uccio. Una voce così disperata da non sembrare quella di mio fratello, rispose al richiamo della mamma:
-Uccio, figliolo! Dimmi che non è vero quello che dicono in televisione!!
-Mamma, non posso parlarti ora, mi trovo nella stazione di polizia di Sedan e comunque la risposta è quella più ovvia, non è colpa mia! Non preoccuparti, tu papà e Valerio continuate a fare la vita normale
-Veramente Uccio siamo tutti a Parigi per te e per sistemare la situazione.
-Cosa! Non dovevate! Ma ora che so che anche Valerio è qui mi sento molto meglio! Ha finito gli studi per diventare carabiniere?
-Sì lui ha finito. Ora ti saluto figliolo. Ci vediamo domani a Sedan.
La faccia di mia madre era ancora turbata anche se il solo parlare con suo figlio sembrò averla resa più tranquilla rispetto a prima. Ciò mi ricordò quando io e Uccio eravamo piccoli e lei si preoccupava quando ritornavamo tardi a casa.
La mattina dopo facemmo velocemente colazione e con una macchina noleggiata, partimmo per il paesino francese. Appena arrivato nel paesino abbandonai con i bagagli e decisi di andare direttamente in centrale e dopo ore di discussioni e trattati riuscii ad ottenere un piccolo ruolo nel caso e quindi parlare con Uccio. Entrato nella sala degli interrogatori trovai seduto mio fratello davanti ad un tavolo di ferri, spettinato e molto provato. Appena mi vide, i suoi occhi si illuminarono di speranza. Incominciai con il salutarlo e abbracciarlo come facevamo da piccoli, la prima domanda fu:
-Chi sono le ultime persone che hai incontrato prima dell’ultima gara?
Ricevetti come risposta una sola e unica frase:
-Ho visto solamente il mio allenatore, ma lui è troppo onesto passarmi anabolizzanti.
L’interrogatorio terminò in poco tempo, ma volevo turbare di più Uccio. La mia attenzione invece passò all’allenatore di mio fratello, Giosuè. Lui era un uomo di mezza età, con un carattere autoritario simile a quello di un generale dell’esercito, uno di quelli dei film americani. Lo trovai nella palestra. Giosuè era seduto in un angolo isolato con le mani intrecciate messe tra i capelli neri brizzolati. Non feci in tempo a porre la prima domanda che una frase secca gli uscì dalla bocca:
-Non so chi lui sia! Ma non sono stato io né Uccio!
Provai a proseguire con altre domande, ma fui nuovamente interrotto dal capitano di polizia di Sedan seguito dalla scientifica. Uscii immediatamente senza pronunciare parole. Pieno di domande tornai nell’alloggio che avevo trovato per me e per i miei genitori. Lì, loro mi aspettavano per parlare dei miei risultati. Amareggiato, quella sera, non ebbi voglia di parlare.
L’indomani mattina la scientifica francese mi portò i risultati dei test che avevano fatto su Giosuè e Uccio. L’unico risultato positivo riguardò una piccola borraccia con un particolare adesivo a forma di mongolfiera: Uccio era ancora il primo sospettato ed il suo allenatore era il secondo. Ero comunque convinto che mio fratello non si fosse dopato! Continuai con le mie ricerche, mi dovevo sbrigare se volevo che Uccio potesse ripartire e vincere il tour. Per tutta la mattina rimasi rinchiuso nella piccola camera d’albergo, non feci colazione e non ebbi contatti con nessuno, il mio unico pensiero era quello di dimostrare l’innocenza di Uccio e mandare in carcere chiunque l’avesse incastrato. Dopo ore passate per trovare le prove decisi di accendere la televisione e con il mio francese un po’ disastroso, ma con una vista da falco, notai un’innata  contentezza nel volto di Francois Boucher, secondo classificato a soli sei secondi dal conquistare la maglia gialla dunque se Uccio non fosse partito lui avrebbe vinto. Lì ricevetti l’illuminazione: decisi di guardare la replica dell’ultima tappa. I miei sospetti furono confermati: in uno scambio di borraccia come quello tra Bartali e Coppi del 1952 vidi Francois mentre consegnava l’oggetto incriminato nelle mani di Uccio. Dopo aver finito di esaminare gli ultimi minuti del filmato, mi infilai i primi vestiti che trovai e partii per la stazione di polizia. Gli mostrai, il più velocemente possibile, tutte le prove agli agenti che concordavano con me: quel ciclista aveva cercato di far passare mio fratello Uccio come un dopato ed il suo allenatore Giosuè come un corrotto. L’ultima tappa per me in questa vicenda fu, con immensa soddisfazione, mettere le manette a Francois, che disse:
-io volevo solamente vincere, non rovinare Uccio.
Per me si concluse qui la vicenda ed Uccio, finalmente libero da ogni accusa, poté continuare a pedalare. Per il mio adorato fratello la vittoria fu quasi scontata e riuscì a tornare nel suo paese in collina da maglia gialla 2015.
(Michele Cianfriglia, Valerio Ronci, Daniele Denni, Simone Tulini, Alessandro Mastrogiacomo, IIIA
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Scrittori di classe: Incipit DIVERSITA'



-Milo, stavolta non mi prendi…Vediamo se sei sempre tu il burlone della coppia! Oggi ti sfiderò: vediamo se sono o no la più brava a nascondersi! Così poi, stasera ci divertiamo a raccontare questa giornata!- pensava Valentina, mentre, sorridente, seguiva il fratello che ondeggiava tra le acque del lago.
Tutto scorreva tranquillo, quand’ecco che, un mulinello improvviso risalì dal fondo del lago, agitando sempre più vorticosamente le acque. Valentina, distratta dallo scherzo, non diede molta importanza al fatto e, incoscientemente, avanzò verso la corrente. Un movimento veloce e circolare cominciò ad avvolgere la canoa che, in un batter d’occhio, si innalzò per scendere verso il fondo. Le acque si richiusero sulla testa di Valentina. Agitando le braccia e le gambe prima in modo casuale, poi in facendo del tutto per risalire in superficie, Valentina riuscì ad avere la meglio e a respirare una boccata d’ossigeno. Ma le sue forze non le permisero di arrivare a riva. Svenne. Il lago l’avrebbe restituita alla terra solo in tarda serata.
Intanto il padre, noncurante del pericolo, aveva deciso di prendere una canoa ma, essendo di fretta, aveva dimenticato il salvagente a riva. Pazzo di dolore, iniziò a pagaiare come un matto. Remata dopo remata, perdeva sempre più le forze, complice un pianto ininterrotto che lo faceva assomigliare ad un mendicante disperato. Nel pianto, sfogava il grande odio per Milo e la rabbia verso la vita che gli aveva dato in dono un figlio storpio come lui:
- Cosa ho fatto di male per avere un figlio difettoso e incapace come lui! Per fortuna, che ho Valentina… Chissà  per quale tremendo scherzo della natura sono nati gemelli: lui con una gamba secca e lei invece… è così…così carina e graziosa…”.
Milo vide scomparire all’orizzonte la figura del padre, come un un uccello nero che migra altrove, dove starà meglio. Sarebbe voluto andare con lui, ma il padre gli aveva fatto  cenno  di no e, per quanto provasse rancore verso quell’uomo, non voleva disobbedirgli. Tuttavia, il pensiero che Valentina fosse in pericolo prese il sopravvento. Si addentrò sempre di più nel folto bosco  che circondava la distesa d’ acqua.
Intanto, nel bosco, una ragazza di quattordici anni che voleva solo fare uno scherzo al fratello vagava, stordita e disorientata, tra i fitti alberi del bosco.
-Dove sono? Come sono arrivata qui? Cosa è successo? Si sta facendo notte…come farò a tornare a casa? Aiuto…ho paura…- ripeteva tra sé e sé, col cuore in gola - Forse è meglio che accenda un fuoco, per fare luce e scaldarmi un po’…i vestiti sono zuppi e comincia a calare il buio…Che Dio mi aiuti e mi protegga dagli animali!-.  
Le ore passavano  e passavano e la notte si avvicinava sempre più, una notte buia senza stelle.
-Che paura…che freddo…voglio tornare a casa!- pensava Valentina.
Nel frattempo, anche la mente di Milo era in subbuglio e l’oscurità del bosco spingeva a cattivi pensieri:
-Mio padre mi ucciderà ! Devo ritrovare mia sorella altrimenti …. No, non ci voglio neanche pensare. Ho paura…ho tanta paura…-.
E mentre parlava con la solitudine e la disperazione, vide suo padre in lontananza, tra le acque del lago: lo vide chinarsi, scrutare qualcosa sul fondo, abbassarsi sufficientemente eed essere inghiottito dalle acque scure.
Milo non ci pensò due volte: sfilò le scarpe, si tolse il giubbetto, si tuffò in acqua e nuotò con agilità fino al padre. Gli passò un braccio sotto le ascelle e lo sollevò, in modo che potesse respirare.che aveva preso lezioni da un bagnino in vacanza lo sapeva fare ed era anche molto bravo.
-Forza, papà t-t-t-t ti prego !- ripeteva mentre lo riportava a riva.
Il padre aveva le mani congelate come quelle di un morto e il suo aspetto non faceva ben sperare
-Ce la faremo papà…Tutto andrà per il meglio, vedrai… Basta solo trovare una fonte di calore per riscaldarti…resisti!-.
Fu così che, mentre raccoglieva qualche legnetto per accendere un fuoco, notò una lucina poco lontano: era un bagliore intermittente, un qualcosa che ricordava la vita quotidiana…un fuoco…
Milo, impaurito e spaventato per quello che poteva succedere al padre abbandonato a riva, preghiera dopo preghiera, passo dopo passo, gamba buona dopo gamba secca, riuscii a raggiungere il fuoco… il volto di sua sorella che dormiva come un bambino rilassato su un letto di foglie era illuminato dal bagliore, che le dava un colorito sano. Si avvicinò piano piano e, con delicatezza, le toccò la spalla.
- Ti prego, ti  prego non uccidermi - urlò Valentina, pensando che si trattasse di chissà quale sconosciuto o di un animale.
- No, no, Vale, sono io, Milo! Che bello rivederti!- e si abbracciarono e riempirono di baci.
-Mi racconterai tutto al più presto, Vale. Ora c’è papà che sta male…Ha rischiato di affogare e sta morendo.
-Dai, muoviamoci! Dobbiamo raggiungerlo al più presto! Non deve morire! Andiamo!-
I due preoccupati cercarono di arrivare alla riva più veloce che mai,tenendosi per mano e sperando nel meglio. Mancava poco,veramente poco, erano quasi arrivati ed ecco che videro  la figura di un uomo simile a un mendicante che, con molta immaginazione, poteva dirsi loro padre. cercava invano di sollevarsi da terra e aveva gli occhi assonnati come quelli di chi è appena uscito da un sonno profondo.
- Perché sei tornato da me? Che vuoi, uccidermi per caso? Io ti odio, lo sai benissimo, vattene!  Non ho bisogno di te, fammi morire in pace! -
-Scusami papà se ti ho provocato tanto dolore, mi dispiace, ma… - e l’abbracciò forte, tanto da scaldarlo.
Il volto corrucciato del padre sembrò rasserenarsi, ma era tutto finito. Seguì un lungo silenzio.
Milo scoppiò in lacrime, stringendo a sé il corpo senza vita del padre. Valentina, afflitta, cadde in ginocchio e accarezzò la testa di Milo, per poi abbracciarlo forte.
-Milo, ce la faremo. L’odio distrugge, ma l’amore vince sempre.
(Luca Trinchieri, Alessio Marta, Valerio Mastrantonio, Davide Mario Proietti, Gabriele Di Pietro, Vittorio Ronci, Classe IA)
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A quel punto Milo cadde in una depressione profonda: infiniti sensi di colpa, e dentro di sé si susseguivano le immagini dei momenti più belli trascorsi con la sua amata sorellina. Ma queste, non bastavano a colmare il vuoto dentro il suo cuore: le parole del padre, l'immagine della sorella che spariva, non se lo poteva perdonare. Passato un po’ di tempo, Milo si riprese e decise di andare a cercare sua sorella, nonostante il suo problema gli impedisse di camminare fluidamente: lo premeva il bisogno. Aveva un carattere introverso e chiuso e questo gli impediva di avere un buon rapporto con le persone. Era alto, aveva occhi blu come il cielo oltre Olimpo e profondi come l'Ade, capelli biondi e ricci che sottraevano il lucente colore del sole, i lineamenti del viso fini e regolari ed un corpo esile simile ad un ramoscello. Incominciò ad incamminarsi verso un fitto bosco il quale non era mai stato attraversato da nessuno. In primo piano, un tappeto colmo di foglie umidicce che variavano dal colore più scuro a quello più chiaro, intorno imponenti e maestosi guardiani sorvegliavano il bosco, e raramente sfrecciavano dei piccolo scoiattoli. Poco più dietro tagliava a metà il bosco un fiumiciattolo dall'acqua limpida e cristallina e si scorgevano degli uccelli che albergavano sui lunghi rami intrecciati tra loro. In lontananza, si udiva il rombo delle macchine ed il ronzio delle api. Il pungente odore della resina si contrastava con l'odore paradisiaco degli ultimi fiori che erano riusciti a resistere al primo freddo dell'autunno.
Ad un tratto, Milo sentì delle urla inquietanti, che sembravano familiari. Subito dentro di lui sentì crescere un qualcosa: qualcosa come la speranza e il desiderio di ritrovarla. Cominciò a cercare di correre più veloce possibile, tuttavia poco dopo cadde esausto a terra e si dovette fermare, ma la forza di volontà lo spingeva a fare sempre di più e così ripartì. Nel tragitto, trovò il giubotto -salvagente della sorella e fece salti di gioia. Arrivò la notte. Era solo, chissà in quale parte del bosco. Si rannicchiò sotto la radice di un albero, quando all'improvviso sentì il fruscio delle foglie schiacciate da qualcuno o qualcosa: era una ragazza. Vide l'ombra dietro di sé e balzò dallo spavento.
Si alzò, si voltò e guardò una ragazza malandata con guance rubizze e l'alito fetido, nauseabondo che parlavano per lei e dicevano quanto era disperata. Sguardo spento, nascosto dalle palpebre appesantite, il naso paonazzo, inoltre il freddo gli faceva compagnia da molte ore quanti erano i capelli che aveva perso dal capo. Vestiti strappati, rovinati e messi di sbieco. I pantaloni strappati e con la cucitura laterale che scendeva davanti, dal ginocchio in giù. Le scarpe ormai sembravano delle ciabatte, erano slacciate e larghe simile ad una barca. Con qualche sforzo si accorse che era sua sorella Valentina e l'abbracciò. La portò al rifugio e cominciò a chiederle cosa fosse successo. E lei disse che l'aveva rapita una persona che non aveva mai immaginato: il loro padre.
<<Milo, non immagini neanche quello che ho passato. Papà mi ha seguita a riva e quando ha visto che ti eri allontanato abbastanza, si è avvicinato alla mia canoa, dicendomi che aveva organizzato una festa a sorpresa per il tuo compleanno e che quindi dovevo rientrare a casa con lui,senza dirti nulla. Io ho accettato, perché non mi sembrava vero che finalmente facesse qualcosa di bello per te. E così l’ho seguito. Quando poi siamo arrivati,mi e mi ha messo una mano sulla bocca così da impedirmi di gridare. Mi ha confessato che non c’era nessuna festa e mi ha trascinato con la forza lungo la foresta fino ad arrivare ad una maledetta capanna di legno marcio. Appena si e distratto, però, ho colto l’attimo e sono scappata ripercorrendo la strada che avevamo fatto all’andata. Non puoi capire quanto io abbia corso. Poi mi sono nascosta qui per evitare che mi trovasse... quanto sono felice di vederti!>>
Milo ascoltava impietrito quel racconto:
<<Non ci posso credere! Pro-proprio nostro p-padre! N-non me lo sarei mai aspettato da lui! Rapirti per costringermi ad andarmene...mi ha deluso profondamente! Se fosse stato qui davanti a me, anche se avessi voluto, non mi sarebbe uscita una parola.>>
Valentina disse:
<<Lo so, neanche io avrei potuto pensare che nostro padre sarebbe stato capace di fare una cosa del genere! Tuttavia, a me ha spiegato il motivo per cui l'ha fatto: mentre ero legata ad una sedia, stava borbottando ad alta voce e continuava a ripetere queste parole:
"Cara mia, se quello stupido con la gamba secca non fosse mai nato tu saresti ancora qui!"
Mi raggelai al sol sentire quelle parole e ancora adesso dentro di me sento un brivido percorrere il mio corpo. Posso assicurarti che io non la penso affatto come lui ma io credo che non è stata colpa di nessuno se la mamma non ce l' ha fatta!>>
Milo era perplesso, rimase di stucco alle parole della sorella e cominciò a riflettere:
<<Vale, ora che ho ritrovato te ho riacquistato parte della mia vita, ma le parole di papà mi hanno spezzato il cuore.Ora che sei al sicuro ho due scelte:andarmene o rimanere nonostante nostro padre.Io sono diverso eppure...cosa ho fatto di male per meritarmi questo? E' una colpa non essere uguale agli altri? Tuttavia devo accettarlo. Sono un ragazzo problematico e alla mia famiglia posso portare soltanto problemi. E' meglio che me ne vada.>>
Valentina sbottò:
<< Milo ma che dici! Il mondo  è pieno di persone diverse e non sei certo tu il primo che si vergognerà del suo modo di essere! Tu sei una persona speciale e piena di virtù>>
Disse ancora Milo:
<<Ora dimmi un ultima cosa: dove si trova?>>
Valentina rispose che era in quel rifugio a dondolarsi rannicchiato in un angolo. A  quel punto lo andarono a cercare . Quando arrivarono lì Milo disse:
<<Papà, perché mi hai detto quelle brutte parole? Non è colpa mia se mamma è morta! >>
Allora il padre gli disse tornando in sé:
<<Figlio mio, sono consapevole di ciò che ho fatto. Stavo prendendo la strada sbagliata quando mi sono detto: ma cosa sto facendo? Da lì mi sono reso conto che disprezzare un figlio è l'errore più grande del mondo che un padre possa fare!>>
I figli inizialmente non accettarono. Allora lui ci provò e riprovò:
<< Vi prego, mi dispiace tantissimo!>>
Il padre si mise in ginocchio e pianse lacrime amare: a vederlo così, sembrava un bambino che supplicava i genitori di perdonarlo. Dondolava il busto, tenendo la testa bassa e facendo scivolare le lacrime a terra. Milo non poteva vederlo in quello stato: lo accarezzò e lo aiutò a sollevarsi. Poi un caldo abbraccio avvolse Milo, Valentina e quel padre, che rinasceva a vita nuova.
(Romano Giorgia, Mastrantonio Valeria, Mastrantonio Damiano, Ferrazzi Domenico, Coni Valentina, Classe IIA)

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Sentendosi in colpa e profondamente ferito dalle parole del padre Giovanni, che furioso si stava allontanando con la canoa per cercare Valentina, Milo scoppiò in lacrime. Gli dispiaceva troppo di aver perso la sorella e, malgrado il suo problema alla gamba e la sua scarsa autostima, prese la canoa e cominciò a cercare Valentina. Ripercorse la scomoda strada fatta precedentemente. L’assordante rumore dell’acqua che scorreva lo distrasse e, per un momento, stava quasi per cadere dalla canoa, perdendo l’equilibrio. Si fermò all’improvviso e si nascose dietro uno scoglio roccioso perché aveva intravisto il padre scendere dalla canoa e imboscarsi nella foresta sulla sponda del fiume alla ricerca della figlia perduta. Restò immobile, senza neanche respirare. Non voleva essere giudicato e umiliato ulteriormente dal padre Giovanni che, vedendolo agli inizi di quella che sarebbe stata la sua avventura per cercare Vale, lo avrebbe sicuramente fermato. Mentre si trovava dietro lo scoglio, la forte corrente trascinò via un remo della canoa e Milo poté percorrere altri pochi metri per poi fermarsi e scendere dall’imbarcazione. Però, nel tentativo di scendere, cadde in acqua, a causa della sua gamba quasi paralizzata. Faticosamente, si aggrappò ad una radice ben salda al terreno e con forza tirò il suo corpo sulla terraferma. Gli faceva male la gamba ed era completamente bagnato, ma volle proseguire. Si strizzò via un po’ d’acqua dalla maglietta e scosse la testa per far perdere gocce ai suoi capelli.
Continuò le sue ricerche appoggiandosi di albero in albero, quando all’improvviso sentì un rumore, un fruscio. Si spaventò e cominciò a correre il più veloce possibile, ma nella mente aveva le parole del padre:” Hai già fatto abbastanza…”. Ne era rimasto colpito, sapeva di avergli dato l’ennesima delusione. L’ansia venne subito sovrastata dalla tristezza.
Ma Milo non si fermò e intraprese un sentiero roccioso in salita con la strada sdrucciolevole. Nel frattempo il padre Giovanni cercava Valentina nella foresta che si trovava sull’altra sponda del fiume. Urlando a squarciagola il suo nome di Valentina, la sua voce arrivò fino alle orecchie stremate di Milo, che in quel momento si rese conto di quanto il padre fosse disperato: il suo umore era come un mare in tempesta, straziato dalla perdita di sua figlia e stanco della lunga giornata.
Milo, distratto dai suoi pensieri, inciampò e si sbucciò il ginocchio, ma nessun dolore poteva essere confrontato con quello che stava provando in quel momento. Si sedette a terra, ricreando nella sua mente il lungo percorso costruito con Valentina; la loro infanzia ricca di emozioni, felicità, risate, amore ma anche tristezze, quando giocavano a nascondino, lui che “contava” sempre e Valentina che si nascondeva. Ecco quest’avventura gli ricordava tutto questo, il loro gioco preferito. In quel momento si fissò quest’obbiettivo: ritrovare Vale e “tanarla” prima del padre, per dimostrargli quanto valeva. Era una sfida importantissima e molto difficile. Ma Milo, infondo, sapeva benissimo che stava cercando sua sorella solo per l’amore che provava per lei. Erano fratelli molto legati, gemelli anche di carattere, due gocce d’acqua: ricordava e teneva in mente la frase che gli aveva permesso di rimanere sempre uniti nonostante le eventuali difficoltà.” Gemelli per caso, amici per scelta!”
Il tempo passava e decise di riprendere il cammino con prudenza. In piedi nel sentiero fece un respiro profondo: l’odore d’umidità e di terra bagnata tipica di un bosco gli riempì i polmoni e gli diede la giusta carica per affrontare il cammino. Stava diventando buio e il sentiero si vedeva a malapena. Milo aveva paura di essersi perso. Non sentiva neanche più le urla del padre. Non aveva una meta ben definita voleva soltanto ritrovare Valentina al più presto possibile. Già gli mancava la sua risata, le sue battute e tutto di lei, non poteva stare senza sua sorella. Era stanchissimo, ma il solo pensiero di non rivedere più Vale, lo faceva stare male, gli faceva salire le lacrime agli occhi, due pozzi in grado di far uscire litri e litri d’acqua da un momento all’altro. Sentiva che stava per scoppiare e inondare tutto con le sue lacrime di disperazione. Cominciava anche ad avere freddo, i suoi vestiti non erano ancora ben asciutti e la sua gamba gli creava molti ostacoli, che con forza e lentezza, superava.
Nell’oscurità intravide un’ombra. Non poteva essere sua sorella, era un’ombra troppo grande per essere la sua. Milo aveva sempre più paura: quest’ombra poteva essere un semplice passante, ma anche una persona con cattive intenzioni. Fermo dietro un albero, Milo tremava e dall’ansia gli venne il singhiozzo. Questo rumore fece girare la grande ombra che girò spuntò da dietro un albero incuriosita e si fece vedere… Milo rimase a bocca aperta, era suo padre. In quel momento voleva solo scomparire, non poteva reggere il peso di un’altra sgridata, di un’altra umiliazione.
Invece suo padre in quel momento non lo sgridò, ma con voce stupita disse:
-Milo? Cosa ci fai qui? O meglio come ci sei arrivato? La strada è lunga e soprattutto difficoltosa, io ho perlustrato tutta la foresta che si trova dall’altra parte del fiume ma niente Valentina…ho quasi perso le speranze. Dovremmo tornare a casa e aspettare che torni indietro da sola. Ma prima voglio dirtelo figliolo: mi hai davvero sorpreso…sono rimasto a bocca aperta trovandoti qui! Ti ho sempre sottovalutato! Credevo che con questo problema alla gamba non potessi fare molto e che non potessi darmi soddisfazioni. Ma la soddisfazione più grande me l’hai data ora Milo! Sono fiero di te…ce l’hai fatta! Perdonami per averti offeso tante volte, abbracciami!
-Papà, non ti preoccupare, facciamo come se non fosse mai accaduto niente di brutto tra noi e ricominciamo da capo!  
Avevano trovato l’amore che tra di loro non c’era mai stato.
Il tempo passava velocemente, la luna era ben visibile e alta nel cielo e i due, riappacificati, intrapresero la strada del ritorno senza speranza di rivedere Valentina  quella sera. Non capivano dove potesse essere andata e neanche il perché del suo gesto, se lo aveva fatto di proposito o se si era persa. Erano tristissimi. La strada era lunga e, nel tornare, parlarono di molte cose che non si erano mai detti prima. Arrivati nel punto dove prima Milo aveva inciampato ed era caduto, si sedettero. Da lì la luna era bellissima: la sua luce rischiarava gli alberi e gli uccellini che volavano fischiettando, tornarono ai loro nidi:
-Milo, ti prometto che d’ora in poi ti porterò con me nelle mie avventure da padre: andremo a pescare insieme, taglieremo la legna o andremo a caccia insieme quando sarai un po’ più grande, ti porterò in campeggio e a dormire in tenda, o anche al parco. Forse per questo sei un po’ cresciuto!
-Si papà, va bene così, magari al parco ci vado con i miei amici.
Disse Milo ridendo, per poi continuare:
-Già immagino come saranno belle e divertenti le nostre giornate. Io ti aiuterò nei lavoretti di casa e tu nello studio.
I due parlarono per molto tempo e le stelle lucenti come diamanti su una soffice seta blu, rischiaravano la foresta. C’era un’atmosfera magica, l’amore del figlio per il padre e viceversa aveva calmato la tempesta nel cuore di Giovanni. Ma la tristezza formava un nodo nella gola dei due che, tutto a un tratto, smisero di parlare tra loro. Mancava qualcuno nella loro vita, mancava quella persona che faceva tutto più divertente e meno drammatico. Mancava lei, Valentina.
Arrivati sulla sponda del fiume si fermarono. Non se la sentivano di andare a casa e lasciare Vale sola chissà dove. Non erano affatto tranquilli e le loro voci lo dimostravano: cominciarono a chiamarla più forte che potevano, perché magari con il silenzio della notte li avrebbe sentiti. Ma niente, alle urla disperate non rispondeva nessuno. Tutto era lì, immobile e muto, non un movimento, non una parola. Milo, sconsolato chiuse gli occhi e cominciò a piangere. Le lacrime gli colavano e tracciavano dei solchi sul suo viso stanco e sporco. I vestiti freddi, la gamba dolorante, i graffi e il ginocchio sbucciato…stava per crollare.
Improvvisamente però una voce fioca chiese aiuto, si faceva sempre più forte, più vicina. Milo alzò la testa e insieme a suo padre iniziò a correre verso la voce. La speranza era tornata, il cuore gli batteva forte. La vedevano…era lei!! In lontananza, spostando rami e rovi, zoppicante e graffiata, Valentina veniva verso suo padre e suo fratello. Quando furono vicini, i tre si abbracciarono per qualche infinito secondo e poi Giovanni e Milo dissero a Valentina:
-Vale, perché l’hai fatto? Non ci provare più, siamo stati in pensiero, in ansia tutto il giorno!! L’importante però è che ora sei qui…cosa hai fatto tutto questo tempo? Come mai zoppichi?
- Piano, piano! Una domanda alla volta! Volevo fare uno scherzo a Milo, nascondendomi come facevo da piccola, ma sono arrivata ad un punto del fiume in cui non potevo andare facilmente né avanti né indietro. Così sono scesa dalla canoa e sono entrata nel bosco. L’unica cosa che ricordo è che sono caduta e rialzandomi ho dato una forte botta alla testa, scontrandomi con un possente ramo. Credo di essere svenuta…circa due ore fa mi sono risvegliata senza ricordare molto, ho cercato di tornare indietro ma non sapevo da dove passare, ho vagato a lungo. Poi finalmente ho preso la strada giusta e ora sono qui!
Disse Valentina. Poi aggiunse:
-ma tu Milo sei venuto a cercarmi? Sapevo che lo avresti fatto! E tu papà, ti sei convinto che lui è come me e te? Che ha le nostre stesse possibilità?
-Si Valentina, non ti preoccupare, tra di noi è tutto a posto.
Le risposero Milo e Giovanni. I tre, molto stanchi, tornarono a casa sotto l’abbraccio della notte e il candore delle stelle. Giovanni aveva finalmente capito che i suoi figli erano uguali e così doveva trattarli.
(Maria Quaresima, Celeste Ferrazzi, Laura Testa, … IIIA)

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Quindi Milo si diresse in camera sua piangendo e tormentato dall'angoscioso pensiero della sorella scomparsa. Perciò, nonostante la sua gamba secca e il cuore distrutto, grazie alla sua forza di volontà, decise comunque di cercarla. Contro il freddo, la pioggia e l'opposizione del padre, uscì di casa, indossò il tutore e cominciò ad effettuare le ricerche di Valentina. La pioggia battente si infrangeva ripetutamente sul suo capo che, oltre alle gocce d'acqua, facevano scivolare lentamente sul suo disperato viso, le lacrime di disperazione. Il sonno e la stanchezza avevano ormai preso il sopravvento su di lui, ostacolando il suo cammino, e gli occhi insonnoliti e stanchi cominciavano a serrarsi contro la sua volontà. Ma, con la gamba secca, le braccia penzolanti e stremate decide comunque di andare avanti. Al culmine delle forze il suo gracile corpo cede, e Milo perde l'equilibrio e battendo violentemente la testa contro una massiccia radice, svenne. Risvegliandosi nel pieno della notte, tentò disperatamente di ripercorrere il tragitto fatto fino a quel punto. La strada però era ripida e fangosa a causa della pioggia, quindi la sua gamba si incastrava nel fango. Il vento soffiava aspramente e duramente contro il suo instancabile viso, come un onda che si infrange su uno scoglio. Aiutato dalla luce riflessa della luna, riuscì affannosamente a trovare ed intraprendere un'altra di quelle tante vie che vi erano in quell'infinito bosco. Ma,grazie al vago e lontano ricordo di quel luogo dove passò la sua infanzia e dove crebbe, riuscì ad orientarsi per la retta via. “Al sol pensiero che io e mia sorella passavamo intere giornate qui...Ora con il disboscamento questo luogo che per me era una seconda casa,non si riconosce più!!” pensò tra sé e sé Milo. Ma, proprio mentre pensava alla vita trascorsa in quel luogo con la sorella, e al rimpianto dell'infanzia che si allontanava giorno dopo giorno, Milo intravide quella che sembrava una grande casa a lui familiare. Si avvicinò con prudenza scrutando sempre più nel dettaglio l'abitazione. Trovatosi di fronte alla villa, si ricordò immediatamente cosa fosse e cosa significasse per lui quella casa. Infatti era proprio un altro pezzo di infanzia di Milo. Un luogo da sempre misterioso che però Milo ricordava con grande facilità ed entusiasmo. Si, era proprio quella. La maestosa villa del signor Smith.
Quella casa era da sempre collegata ad un'oscura e misteriosa leggenda. Si credeva, infatti, che l'anima di Smith stesse ancora girovagando nell’abitazione in cerca di vendetta da quando era stato assassinato dal nipote,il fidanzato di Valentina. Ma Milo non credeva a queste cose, anzi, non voleva credere a quelle storie che solo al pensiero, mettono i brividi. Il signor, o meglio dottor Smith era molto legato alla famiglia di Milo e Valentina, perché un tempo era riuscito a salvare la loro mamma da un morso di un serpente velenoso.
Benché avesse paura e molto dolore procurato dalla gamba insecchita, Milo si fece coraggio e si inoltrò nella casa. Entrò paurosamente e,al primo impatto notò una fioca luce proveniente da un angolo della casa che illuminava a intermittenza il salone. Per quello che riuscì a vedere, Milo notò un terrificante luogo che, fino a pochi anni prima era il posto più bello per passare le giornate: di fronte a lui, c'era un grandissimo divano lussuoso ed un grande armadio contenente molti oggetti di valore ancora all'interno, ma consumato e rovinato. Ai lati, invece, si estendevano due scale a semichiocciola che collegavano il piano inferiore col superiore. Infine, al punto d'incontro delle due scale, v'era una maestosa ed enorme gigantografia del dottore. Alzando lo sguardo, Milo vide un lampadario gigantesco, fatto interamente di cristalli, che un tempo illuminava l'imponente sala da ballo dove tutti i più grandi esponenti delle città adiacenti, si riunivano ogni sabato per il grande ballo. Il dottor Smith aveva accumulato tutto quel denaro in tanti anni di onorata carriera: ma proprio quel denaro, si diceva, lo aveva condotto alla morte ad opera del nipote, avido e crudele.


Salita l'interminabile scala, Milo si inoltrò in un corridoio buio e pauroso. Non era affatto un luogo sicuro. Le ragnatele erano dappertutto, ratti e ragni abitavano quel luogo da fin troppo tempo e d ora qualcuno camminava anche sulle gambe di Milo. Si avvicinò alla stanza di Smith, la cui entrata era ostacolata da un portone gigante, chiuso a chiave da delle catene di ferro. Qualcosa dentro di sé gli diceva che doveva entrare lì dentro. Riuscì a trovare un'entrata secondaria che corrispondeva ad un piccolo foro nel muro laterale. Proprio per il suo corpo gracile e la sua gamba secca, Milo riuscì ad entrare. Entrò cautamente nella stanza avvolta da un lugubre buio . E fu proprio lì che il coraggioso e disabile ragazzo vide, affiancata da un mucchio di vestiti sporcati e rovinati da sangue, sua sorella. Il cuore cominciò a battere all'impazzata ed il suo stomaco cominciava a cedere. La mente diceva di andar via, ma il cuore decise di restare. Dei rumori lontani e poi dei passi lenti e cadenzati, lo spinsero a voltarsi. Vide in lontananza la sagoma di un l'uomo che saliva le scale, diretto verso la camera dove erano i due. Con fare goffo, riuscì tuttavia a nascondersi dietro il letto. Da lì, attraverso la luce argentea della luna che penetrava dalla finestra, poté scorgere e riconoscere un volto familiare: era Jonatan, il ragazzo di Valentina. Raggelò e si sentì mancare il respiro, ma non c’era tempo: era troppo vicino per pensarci due volte: si tolse il tutore dalla gamba e,al momento giusto, lo scagliò con forza contro la tempia destra del ragazzo, che svenne istantaneamente . Ora bisognava soccorrere Valentina, farla rinvenire e progettare la fuga, prima che Jonatan si svegliasse.
Con il cuore in gola, Milo si alzò dolorosamente e scosse il corpo della sorella, affinché si svegliasse. I secondi sembravano minuti e la sorte della sorella dipendeva ormai solo da lui. Valentina si svegliò sussurrando:
“Cosa è successo?” “Non c'è tempo! Dobbiamo fuggire! Non c’è tem…” Milo non fece in tempo a terminare la frase. Sollevandosi nella sua imponenza, Jonatan travolse Milo, prendendolo di sorpresa alle spalle. Jonatan tentò di spingere Milo oltre la finestra aperta: il suo corpo ormai sporgeva nel vuoto, ma il ragazzo non mollava la presa dagli abiti di Jonatan. Non poteva finire così, quel mostro non poteva fare del male a sua sorella. Con un gesto veloce di rabbia, riuscì ad avere la meglio e, roteando su se stesso, spinse Jonatan nel vuoto. La gamba secca però, lo tradì. Il suo corpo si sbilanciò troppo e gli fece perdere l’equilibrio. Urtò il fianco sul davanzale e con la testa urtò il vetro della finestra. Fu un attimo e le arterie del collo furono recise dai frammenti di vetro. Milo cadde a terra, sul cortile, accanto al corpo di Jonatan.
La luna era alta e indifferente.
-No!- urlò Valentina con quanto fiato aveva in gola. Quell’urlo straziante arrivò, nel silenzio della notte, anche nel folto del bosco, attirando l’attenzione del padre.
Li trovò così: Valentina curva su Milo, ormai morente, in una pozza di sangue.
“Milo, figlio mio! Cosa hai fatto? Resisti, figlio mio!”
“Ho salvato mia sorella, papà. Vedi, Valentina è salva, non essere preoccupato. Ho riparato il danno” rispose Milo con un fil di voce.
A quelle parole il padre rabbrividì, e scoppiò in un pianto dirotto, seguito da quello della sorella.


Nei giorni seguenti le indagini accertarono che Jonatan aveva ucciso diverse ragazze, con cui aveva avuto una storia.
La casa del dottor Smith fu ristrutturata nei minimi dettagli: il padre ricavò dal cortile un piccolo orto e un piccolo parco giochi per i disabili della città , affinché potessero andare a giocare in quella che un tempo era stato un teatro di morte e distruzione.
La placca d’ottone all’ingresso reca la scritta: “A Milo”.
(Michele Di Pietro, Alessio Testa, Antonio Matassa…IIIA)